Sembrano addensarsi nuvoloni per il mining di asset digitali all’interno dell’Unione Europea. Le indiscrezioni che stanno girando in questi giorni relative al varo della nuova legislazione in tema di criptovalute nota come Markets in Crypto-Assets (MiCA) sembrano confermare un orientamento che si stava facendo largo ormai da mesi. Ovvero la messa al bando dell’attività di estrazione dei blocchi necessaria per produrre i nuovi token.

La bozza che è in via di formazione, infatti, includerebbe una disposizione che vieterebbe l’estrazione basata sull’algoritmo di consenso Proof-of-Work (PoW). Il motivo è da ricercare nell’eccessivo impiego di risorse energetiche necessario per il meccanismo alla base del mining di Bitcoin tale da comportare rischi enormi a livello ambientale, di cui ha del resto preso atto la Cina bandendo le criptovalute dal suo territorio.

La preoccupazione nei confronti del mining è crescente

Dell’impatto ambientale del mining di criptovalute fondato sul Proof-of-Work si discute ormai da tempo. Le preoccupazioni ad esso collegate sono del resto state recepite all’interno del mondo crypto, come dimostra il varo del Bitcoin Mining Council. L’organizzazione nata su impulso di Elon Musk non ha potuto fare altro che prendere atto di una realtà abbastanza preoccupante, incaricandosi di formulare proposte atte a risolverla, per quanto possibile.

Un atteggiamento propositivo il quale, però, non sembra sufficiente per alcuni governi. A partire da quelli del Nord Europa, che proprio di recente hanno dato vita ad una serie di iniziative tali da provocare non poche preoccupazioni tra le aziende crypto. In particolare è stata la Svezia a proporsi come testa di ariete in tal senso. Nel novembre dell’anno passato, infatti, Finansinspektionen, autorità preposta alla sorveglianza dei mercati finanziari del Paese scandinavo, ha espressamente chiesto il divieto del mining di criptovalute.

A rinforzo della tesi è poi arrivato Erik Theeden, il vicepresidente dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, che è anche direttore generale della medesima. Proprio lui, nel corso di un’intervista rilasciata al Financial Times ha additato il mining alla stregua di un problema nazionale.

Un atteggiamento sposato dalla Norvegia, mentre l’Islanda ha iniziato a chiudere le forniture alle mining farm dislocate lungo il suo territorio. Un quadro tale da comportare grande preoccupazione per le aziende del settore e nel quale si vanno ora ad inserire le indiscrezioni relative al nuovo regolamento europeo.

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L’anatema ungherese

Ai Paesi nordici si è poi aggiunta l’Ungheria, con una nota ufficiale apparsa alla metà di febbraio sul portale della MNB (Magyar Nemzeti Bank), firmata da György Matolcsy, il governatore centrale.

La sua proposta, rivolta a tutta l’Unione Europea, parte proprio dal bando della Cina al mining. Secondo Matolcsy l’UE dovrebbe mettere al bando il Proof-of-Work, anche se nulla vieterebbe ai cittadini europei di possedere criptovalute all’estero.

Per rendere ancora più evidente il suo fastidio nei confronti del denaro virtuale, il governatore centrale magiaro non ha infine risparmiato una stoccata al suo possibile utilizzo per la formazione di piramidi finanziarie e attività criminali.

I dati dell’università di Cambridge

A sostegno delle preoccupazioni svedesi, occorre peraltro ricordare i dati resi pubblici dall’Università di Cambridge. L’ateneo britannico ha infatti da tempo istituito un osservatorio permanente, teso a studiare i dati relativi al mining di criptovalute.

Dagli studi elaborati esce un dato in effetti molto preoccupante, ovvero gli oltre 120 terawattora di elettricità consumati all’anno dalla rete Bitcoin. Per capire meglio il dato occorre ricordare che la gran parte dei singoli Paesi non raggiunge questo livello di consumo.

Se i crypto-fans affermano che tale consumo è inferiore a quello di altre attività come l’estrazione dell’oro (la metà) o il funzionamento del sistema bancario (un decimo), per i detrattori è abbastanza facile rispondere che si tratta di attività considerate essenziali, a differenza del Bitcoin.

Occorre anche precisare che secondo Finbold, i dati dell’osservatorio di Cambridge sono sottostimati. Il consumo annuo stimato di elettricità di Bitcoin sarebbe in realtà pari a 143 TWh , stando ai dati rilevati al 5 maggio 2021.

Anche in questo caso per capire meglio possono essere i raffronti. A partire dal fatto che il consumo collegato a BTC è almeno otto volte superiore a quello combinato di Facebook e Google, pari a 17 TWh.

E, ancora, I consumi generati dal mining dell’icona inventata da Satoshi Nakamoto rappresentano circa il 69% di tutta l’energia utilizzata dai data center globali, attestata a quota 205 TWh.

La soluzione: utilizzo di fonti rinnovabili o conversione al Proof-of-Stake?

Il dato che dovrebbe essere guardato con più interesse, all’interno di quelli forniti dall’osservatorio di Cambridge, è però quello relativo alla percentuale di energia proveniente da fonti rinnovabili utilizzata per il mining. Che si attesterebbe appena al 39%.

Dal dato in questione sono in molti ad affermare che se non si vuole arrivare al bando del mining fondato sull’algoritmo di consenso, occorre elevare in maniera molto rilevante la percentuale di energia proveniente dalle fonti rinnovabili.

Per farlo, però, servirebbe un vero e proprio cambio di paradigma. Basti pensare che all’interno dell’Unione Europea, ancora nel 2020 il 70% dell’energia impiegata proviene dalle fonti fossili. Un dato in continuo ripiegamento (nel 1990 era all’83%), ma ancora troppo elevato.

L’alternativa ad un maggiore impiego di energia proveniente da fonti rinnovabili, che sembra per ora abbastanza aleatorio, potrebbe allora essere individuata nell’algoritmo di consenso Proof-of-Stake.

Considerato molto meno energivoro e conveniente, non a caso ha spinto il management di Ethereum a mettere in campo la sua sostituzione al PoW. La conversione dovrebbe essere completata entro la fine di quest’anno, ma già alcune voci autorevoli ne affermano la necessità per salvare il Bitcoin.

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