Secondo il Wall Street Journal l’unità Risk Solutions di Coinbase avrebbe utilizzato fondi aziendali per dare vita a operazioni di trading proprietario. L’unità in questione era stata formata dall’exchange assumendo almeno quattro trader esperti al fine di scambiare asset virtuali per conto della propria clientela.

L’accusa del giornale, considerato una voce estremamente autorevole in ambito finanziario è in effetti grave. Non solo prefigura un vero e proprio conflitto di interesse, ma rende del tutto evidente come affidare i propri soldi a Coinbase possa comportare rischi di non poco conto, soprattutto alla luce delle voci relative alle difficoltà che l’exchange starebbe vivendo ormai da tempo.

Sempre stando alle indiscrezioni filtrate sino a questo momento, il gruppo di trader assunto all’uopo avrebbe dato luogo ad una serie di operazioni le quali hanno permesso a Coinbase di collezionare 100 milioni di dollari in termini di profitti. La domanda che si pongono in molti, dopo queste rivelazioni sono abbastanza comprensibili: cosa sarebbe potuto accadere se, al contrario, si fossero verificate perdite nello stesso ordine di grandezza? L’accusa del Wall Street Journal è quindi di un certo rilievo, tanto da aver costretto l’azienda a rispondere sul suo blog.

La risposta di Coinbase alle accuse del Wall Street Journal

La risposta di Coinbase è arrivata a stretto giro di posta ed è apparsa sul blog aziendale. In pratica, l’exchange afferma che non conduce trading per proprio conto, come fanno altre aziende (senza però specificare quali) e non agisce in qualità di market maker. Al tempo stesso ammette di acquistare di tanto in tanto criptovalute per scopi operativi e di tesoreria aziendale. Queste attività, secondo il gruppo, non corrispondono a trading proprietario, in quanto lo scopo non è quello di beneficiare di aumenti di valore a breve termine degli asset acquistati.

Proprio dall’operazione che avrebbe portato 100 milioni di dollari nelle casse di Coinbase, però, emerge una questione di non poco conto, tale da poter avvelenare i rapporti tra l’exchange e il potere politico. Cinque mesi dopo l’operazione, infatti, la Chief Financial Officer dell’azienda Alesia Jeanne Haas, nel corso di una deposizione al Congresso (cui hanno partecipato anche Jeremy Allaire, Sam Bankman-Fried, Denelle Dixon, Charles Cascarilla e Brian Brooks)  si è trovata a dover rispondere ad una domanda posta da Alexandria Ocasio-Cortez, una delle stelle nascenti del Partito Democratico. La domanda era proprio relativa ad eventuali operazioni di trading proprietario, ipotesi esclusa dalla Haas.

Da qui nascono le accuse di aver mentito davanti al Congresso, che negli Stati Uniti è molto seria, tali da spingere sempre Coinbase a dichiarare in maniera molto secca di non aver mai condotto questo genere di trading. Una tesi che, però, non sembra del tutto corrispondente al vero, anche perché nel corso della stessa audizione, di fronte ad una domanda posta da Maxine Waters l’azienda aveva dovuto ammettere gli acquisti di valuta virtuale. Una serie di contraddizioni le quali sono tornate a galla dopo le rivelazioni del Wall Street Journal, insieme ai tanti dubbi sul reale stato finanziario dell’exchange.

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Le voci sulle difficoltà di Coinbase

Nel maggio passato, Coinbase ha pubblicato la relazione relativa ai primi tre mesi dell’anno, nel corso dei quali l’azienda ha collezionato ingenti perdite. Un risultato talmente negativo da aver provocato vero e proprio panico tra i tanti investitori che hanno deciso in precedenza di puntare sul titolo dell’exchange, a Wall Street. L’amministratore delegato della società, Brian Armstrong si è quindi trovato costretto a rispondere con una dichiarazione in cui ha inteso smentire qualsiasi possibilità di quella bancarotta evocata da molti.

La paura che si è diffusa in quella occasione è anche derivante dalle maldestre affermazioni contenute nel comunicato emesso da Coinbase, tali da lasciare di stucco non pochi investitori: “In caso di fallimento, le criptovalute che deteniamo per conto dei nostri clienti potrebbero essere soggette a procedura fallimentare.” Affermazioni talmente maldestre da spingere alcuni noti osservatori del settore ad affermare che è molto chiaro come in caso di bancarotta l’azienda userà le risorse della clientela per mettersi al riparo.

Molti, in queste ore, si staranno quindi interrogando sull’effettiva convenienza di continuare a detenere i propri soldi sui conti di un’azienda che non solo è considerata in grande difficoltà, ma che addirittura porta avanti operazioni di trading per suo conto, in un settore tradizionalmente rischioso e ormai in difficoltà da mesi. Domande le quali, alla lunga, potrebbero finire per guastare completamente il rapporto tra Coinbase e i mercati.

Intanto fioccano le accuse per la piattaforma di scambio

Come abbiamo visto, Coinbase ha smentito sul suo blog l’attività di trading proprietario. Ci sono però altre accuse che potrebbero inguaiare non poco la piattaforma di scambio. Nel mese di agosto, infatti, la Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti (SEC), ha deciso di avviare un’indagine tesa a capire se l’azienda abbia consentito ai propri clienti di condurre trading su vere e proprie securities. Ove l’accusa venisse confermata, Coinbase si configurerebbe alla stregua di una borsa valori.

La seconda accusa è quella formulata da un gruppo di investitori rappresentati dallo studio legale Bragar Eagel & Squire di New York, secondo i quali Coinbase avrebbe rilasciato dichiarazioni ingannevoli riguardo alle sue attività tra il 14 aprile 2021 e il 26 luglio 2022. In pratica, non rivelando che le criptovalute dei clienti erano tenute in deposito presso i wallet aziendali, Coinbase le avrebbe sottoposte al rischio dell’azienda stessa, a detrimento dei diritti dei clienti interessati. Nel caso in cui la società dovesse fallire, infatti, i possessori di cryptovalute potrebbero ritrovarsi impossibilitati nell’accedere ai propri token, venendo di conseguenza travolti completamente.

Una lunga serie di accuse una più grave dell’altra, quindi, tali da mettere sempre più nell’angolo il controverso exchange diretto da Brian Armstrong, con le ricadute negative ampiamente prevedibili presso un’opinione pubblica sempre più smarrita di fronte ai comportamenti sin troppo disinvolti delle aziende crypto. Coinbase dovrà fare qualcosa di più che affidare le sue risposte al blog, con una arroganza che potrebbe alla fine rivelarsi del tutto controproducente. Ad esempio, fornire risposte in grado di dissipare i dubbi di SEC, utenti e mercato.

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