Secondo un report di Challenger, Gray & Christmas sono oltre 1452 i CEO, in Italia Amministratore Delegato, che hanno perso il loro lavoro nel 2018 in America. Un numero considerevole, maggiore del 25% rispetto all’anno precedente, e il più alto dato dalla crisi finanziaria del 2007-2008, di cui ancora paghiamo gli strascichi: l’innovazione distrugge, se non si riesce a sopportarne il peso o a capire i repentini cambiamenti che si susseguono nel mercato di oggi, specie quando bisogna fare i conti con l’innovazione che avanza. Di seguito riportiamo 10 casi di CEO che non ce l’hanno fatta a causa della loro incapacità di innovare.
Mike Lazaridis & Jim Balsillie (2012, BlackBerry)
Quello di Blackberry è il classico caso in cui, assunta una posizione dominante sul mercato, ci si siede sugli allora: quando una novità viene presentata al mondo, forti delle proprie convinzioni e dei dati rassicuranti sul market share dell’azienda, ci si siede vicino la sponda del fiume in attesa del cadavere dei concorrenti. Ma così non è stato per Mike Lazaridis e Jim Balsillie, co-CEO di Blackberry.
Blackberry è un altro caso di un’azienda che occupa il vertice della sua categoria, in questo caso la vendita di smartphone: nel suo periodo migliore, Blackberry vantava più della metà degli smartphone venduti su scala globale.
I due CEO non hanno saputo prendere le dovute precauzioni contro quelli che sarebbero diventati i veri protagonisti del mercato smartphone: Apple e Google. Quando nel 2007 è stato introdotto l’iPhone, l’azienda valeva 42 miliardi di dollari: alla fine del 2011, il suo valore era precipitato del 75%. Sia Lazaridis che Balsillie pensavano che il mercato non fosse pronto per avere un computer touchscreen nelle proprie tasche, e fallirono ancora di più quando provarono a correre ai ripari: nel 2008 introdussero il BlackBerry Storm, il primo smartphone dotato di touchscreen dell’azienda, da molti considerato un vero disastro. Ci riprovarono nel 2011 con il Playbook, un tablet che avrebbe dovuto fronteggiare la nuova minaccia degli iPad che avanzava: un totale disastro commerciale.
Nel 2012 entrambi i CEO assunsero un ruolo marginale all’interno del consiglio di amministrazione di RIM, l’azienda che detiene Blackberry, abbandonando il ruolo di capitani del vascello. Nel 2016, l’azienda ha smesso di produrre smartphone, concentrandosi invece su servizi e software, ma l’attesa non è durata molto: è tornata nel mercato timidamente con smartphone con a bordo Android, come il Blackberry Key2 e Blackberry Motion, alleandosi con uno dei suoi più acerrimi nemici.
William Lynch (2013, Barnes & Noble) & Ronald Boire (2016, Barnes & Noble)
Due CEO, due esperienze differenti ma che conducono allo stesso inesorabile risultato: la mancanza d’innovazione che porta al conseguente fallimento dell’azienda.
Dopo essere sopravvissuta all’uragano Amazon e al suo e-commerce, letteralmente decollato dopo i primi anni 2000, Barnes and Noble ha avuto una forte battuta d’arresto nel 2013. Anni prima l’azienda aveva lanciato sul mercato il Nook, un e-reader di successo che William Lynch volle porre come core-business della compagnia. Purtroppo, nel 2013 la divisione hardware di Barnes & Nobles ha registrato un declino nelle vendite del 34% e una perdita di 177 milioni di dollari, il doppio dell’anno precedente: Lynch fu licenziato, e cominciò il declino dell’azienda.
Due anni dopo, Ronal Boire assunse l’incarico di CEO nel Luglio 2015: la sua strategia fu quella di diversificare il portfolio di prodotti venduti dall’azienda. Questo portò ad una perdita del focus sul core-business dell’azienda, ovvero la vendita di libri, online e nei negozi fisici. La divisione relativa alle vendite online, con la mancanza di risorse, non riuscì ad essere competitiva rispetto a quello che era diventato un gigante delle vendite: stiamo parlando di Amazon.
È così che il consiglio di amministrazione, dopo i dati disastrosi relativi al primo trimestre fiscale del 2016, decise di licenziare Boire “nel miglior interesse di tutte le parti”.
John Akers (1993, IBM)
Un articolo di ZDNet del 2014 descrive John Akers come “il CEO che ha perso il mercato dei PC”: sotto la guida di Akers, IBM ha perso completamente la sua leadership nel mercato dei computer, una posizione dominante occupata per anni, sia sul fronte hardware che software. Sempre secondo il report di ZDNet, in alcuni anni IBM aveva il 100% dei profitti derivanti dalla vendita nel settore IT, prima che si facesse avanti la concorrenza, come un allora sconosciuto e giovane Bill Gates, ai tempi 19enne, che fondava Microsoft e avrebbe dato filo da torcere per la concorrenza sul software con il suo sistema operativo Windows.
Secondo Akers, nella corsa per il dominio del mercato PC, la velocità era tutto: invece di sviluppare internamente i processori Intel e il software di Microsoft, comprò le loro licenze d’uso. Questa collaborazione diede alle nuove startup un vantaggio competitivo nell’industria, consentendo ad entrambe di superare IBM.
Quando fu chiaro che il futuro dell’azienda era nella somministrazione di software e servizi, Akers dovette affrontare una riorganizzazione profonda che avrebbe diviso la compagnia in tanti piccoli dipartimenti indipendenti, così da rendere l’apparato più snello e capace di competere con azione rivali, come appunto Microsoft. Akers però non ebbe il polso per effettuare tagli drastici al personale, optando invece per misure più leggere, ma che gli costarono il posto di lavoro.
Nel 1992, IBM ha subito perdite per oltre 5 miliardi di dollari, e Akers, il cui mandato sarebbe scaduto nel 1994, è stato licenziato. IBM ha saputo poi rialzarsi, nel corso degli anni, ed anche se al momento attuale non ricopre un posto di spicco nell’industria tech la sua divisione IBM Watson è una delle aziende leader nello sviluppo di soluzioni per l’intelligenza artificiale.
Robert Nakason (1999, Toys ‘R’ Us)
L’avvento degli e-commerce e l’incapacità di comprendere il mercato fu fatale per Robert Nakasone, il CEO di Toys ‘R’ Us, azienda Americana specializzata nella vendita di giocattoli. Era il 1998 quando l’allora gigante dell’industria dei giocattoli vide il suo market share crollare dal 25.4% all’inizio degli anni ’90 al 16.8%: era il momento di applicare una nuova strategia, ma Robert Nakasone non era la persona adatta a fronteggiare la crisi di fine millennio.
Gli anni 2000 hanno rappresentato infatti una svolta epocale sia nei gusti delle persone, e dei bambini, sia nel modo di acquistare: computer e videogames dominano le vendite del mercato rispetto ai giocattoli tradizionali, e per la prima volta esplodono online gli e-commerce. Nonostante la promessa agli investitori da pare di Nakasone che l’azienda sarebbe stata un leader nel mercato delle vendite online, altri competitor riuscirono lì dove Toys ‘R’ Us avrebbe dovuto. Una startup fondata nel 1997, eToys, ottenne un successo incredibile grazie alla vendita online di giocattoli: dopo due anni il suo valore di mercato era il 35% superiore a quello di Toys ‘R’ Us, sul mercato da anni, con una vasta catena di distribuzione fisica su tutto il territorio americano. Non mancarono errori madornali, come avvenne durante Natale 1998: la compagnia perse completamente terreno rispetto ai competitor nelle vendite online a casa di errori d’inventario, che si tradussero in un malcontento generale a causa delle mancate consegne degli ordini.
Ma il colpo di grazia arrivò dopo la dipartita di Robert Nakasone nel 1999: subito dopo, in pieno nuovo millennio, con l’idea di rimanere competitivo sul mercato delle vendite online Toys ‘R’ Us firmò una partnership esclusiva con Amazon per la vendita dei suoi prodotti online, pagando oltre 50 milioni di dollari l’anno per poter rimanere a galla in un mercato ultra-competitivo. Da allora è stato un lento declino, che ha portato l’azienda a dichiarare bancarotta nel 2018.
Gary DiCamillo (2001, Polaroid)
Chi non ricorda le macchine fotografiche istantanee Polaroid, che proprio in questi ultimi anni sono tornate in auge sotto vari brand e nomi? Il simbolo di un’era, ed anche di un’azienda e di un CEO che non hanno saputo mettere al centro dei loro sforzi l’innovazione tecnologica, rimanendo indietro rispetto alla concorrenza.
Gary DiCamillo divenne CEO dell’azienda nel 1995: al tempo, oltre il 65% dei proventi dell’azienda derivava dalle vendite delle pellicole istantanee, di cui l’azienda è stata leader per decadi. Nonostante Polaroid, già nel 1989, dedicasse il 42% delle risorse in Ricerca e Sviluppo alla fotografia digitale, non ha mai cavalcato l’onda della rivoluzione digitale.
DiCamillo non ha saputo prevedere come il mercato sarebbe cambiato di lì a pochi anni, con l’esplosione della fotografia digitale: in parte perché nessuno ha saputo prevedere tale tendenza, ed in parte perché non ha avuto il coraggio di rischiare che l’azienda si focalizzasse su di un prodotto che non avrebbe potuto ottenere gli stessi margini di profitto delle pellicole istantanee.
Sotto pressione a causa di oltre 1 miliardo di dollari in debiti, DiCamillo ha provato a condurre l’azienda sulla via del digitale con lo sviluppo delle stampanti fotografiche Opal e Onyx, ma il destino dell’azienda era già segnato: Polaroid ha dichiarato bancarotta nel 2001, ed il suo CEO ha rassegnato le dimissioni l’anno seguente. Al giorno d’oggi la stampa istantanea di foto è tornata in auge, con prodotti come Draw, Canzon Zoemini S e Polaroid Snaptouch che provano a cavalcare l’onda, ma è solo un ricordo sbiadito rispetto a quello che Polaroid ha rappresentato per generazioni in passato.
Jeff Immelt (2017, General Electrics)
Si può fallire anche quando si abbraccia la strada dell’innovazione troppo presto: è il caso di Jeff Immelt, ex CEO di General Electrics: una azienda consolidata, ma che Immelt decise di trattare come una startup, integrando soluzioni innovative per l’IIOT (Industrial Internet of Things) che si sono rivelate disastrose da un punto di vista economico.
Immelt decise di puntare tutto sull’innovazione per traghettare l’azienda in un nuovo, prospero periodo: l’intenzione era quella di poter avanzare rispetto a tutta la concorrenza nel suo core-business, GE Power, ma gli investitori dell’azienda non erano della stessa opinione.
Secondo molti analistici, Immelt ha semplicemente messo in atto delle pratiche comuni nella creazione di startup, puntando tutto sul ritorno economico in tempi lunghi: dato che il successo delle sue strategie non fu mai verificato nel breve periodo a causa degli scarsi risultati ottenuti, con il valore dell’azienda ridotto di un terzo durante la sua guida, gli investitori decisero di correre ai ripari e licenziare Immelt dopo solo pochi mesi.
Margo Georgiadis (2018, Mattel)
Ex-Presidente di Google, Margo Georgiadis fu chiamata a guidare l’azienda Mattel proprio per le sue credenziali nel mondo della tecnologia e dell’innovazione. Mattel infatti soffriva perdite a causa del suo distributore principale, Toys ‘R’ Us, che come abbiamo già visto ha subito un lento declino rispetto alla sua posizione dominante pre-2000.
Mattel, produttrice di giocattoli, voleva essere traghettata in una nuova era fatta di e-commerce e digital gaming: purtroppo sull’azienda pesavano oltre 2.9 miliardi di dollari di debito che hanno compromesso sin dall’inizio la transizione. Nonostante Georgiadis abbia ridotto il debito a 650 milioni alla fine del suo mandato, l’azienda non è riuscita a decollare nel settore delle vendite online, perdendo oltre il 50% del suo valore di mercato durante il periodo in cui Georgiadis ha avuto le redini dell’azienda.
Camillo Pane (Coty, 2018)
Non basta un prodotto prestigioso e di successo: al giorno d’oggi è fondamentale saper trovare i canali giusti di vendita. È così che Camillo Pane, CEO di Coty, ha perso la sfida più importante della sua vita. Proprio un anno prima di essere assunto accusava l’azienda di avere “una mentalità da startup”: un anno dopo è stato licenziato per mancanza di innovazione rispetto alla concorrenza.
Camillo Pane non ha saputo cogliere quanto gli influencer possano contare nella scelta dei prodotti per le masse, soprattutto nel mondo dell’industria cosmetica: guardando video su Youtube o seguendo gli influencer preferiti su Instagram, i clienti cercano un’esperienza reale che sia raccontata da persone di cui si fidano ma per cui provano un legame, abbandonando i canoni di prestigio e successo che hanno contraddistinto l’industria finora.
Non è un caso che, durante l’operato di Camillo Pane, Coty abbia perso più del 50% del valore delle sue azioni nonostante l’acquisizione da Proctor e Gamble del 40% dei suoi brand di bellezza. Nello stesso periodo, il rivale Estee Lauder Cos vide il suo valore di mercato raddoppiare: la differenza è stata nella strategia applicata, più vicina a ciò che i consumatori davvero vogliono da un prodotto, e che al giorno d’oggi si racchiude sempre più nel termine esperienza.
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