Delle criptovalute si parla sempre di più, soprattutto in considerazione di un loro sempre maggiore utilizzo anche nella vita quotidiana. Stranamente, però, la discussione quasi mai si allarga ad un aspetto estremamente importante delle stesse, ovvero il regime fiscale cui sono sottoposte.
Si tratta in effetti di una rimozione giustificata dal fatto che, all’atto pratico, gli asset virtuali non sono per ora oggetto di una regolamentazione organica. In assenza di un quadro normativo ben preciso, non dovrebbe stupire che manchino anche indicazioni certe su aspetti come la loro dichiarazione nella dichiarazione dei redditi e l’eventuale aliquota fiscale cui dovrebbero essere assoggettate.
Proviamo quindi a cercare di capire meglio i contorni della questione, anche alla luce della discussione in atto all’interno delle istituzioni continentali per quanto concerne il provvedimento noto come Markets in Crypto Assets (MiCA), il nuovo insieme di regole le quali dovrebbero uniformare il settore dell’innovazione finanziaria all’interno dell’eurozona nel corso dei prossimi anni.
Indice:
L’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate
Il punto di partenza può essere individuato in una recente risposta fornita dall’Agenzia Entrate (n.788/2021), dalla quale sembra derivare una prima certezza: le criptovalute devono sempre essere inserite all’interno della dichiarazione dei redditi, precisamente all’interno del quadro RW. In pratica, questa sezione della dichiarazione dei redditi rappresenta il prospetto cui devono riferirsi tutti i contribuenti in fase di adempimento agli obblighi di monitoraggio fiscale.
In particolare, la norma in questione obbliga le persone fisiche residenti all’interno dei confini nazionali a indicare gli investimenti all’estero o le attività estere di natura finanziaria detenute fuori dall’Italia.
Cosa si intende per investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria? Nella prima categoria vanno a rientrare in particolare:
- gli immobili situati all’estero o i connessi diritti reali immobiliari (nuda proprietà o usufrutto, ad esempio);
- i preziosi e le opere d’arte dislocate all’estero;
- le imbarcazioni e gli altri beni mobili detenuti al di fuori del territorio peninsulare e/o iscritti all’interno dei pubblici registri esteri.
Per quanto concerne la seconda categoria, occorre invece ricordare:
- le attività i cui redditi sono corrisposti da soggetti non residenti in Italia, come le obbligazioni di altri Paesi, le partecipazioni al capitale di società estere, i titoli pubblici italiani ed equiparati che siano stati emessi all’estero, le valute diverse dall’euro, i depositi e i conti correnti bancari costituiti fuori dai confini nazionali;
- i contratti di natura finanziaria (prestito titoli, finanziamenti, pronti contro termine e riporti) oggetto di stipulazione con controparti non residenti;
- le polizze di assicurazione sulla vita, quelle di capitalizzazione e le forme di previdenza complementare concordate con compagnie estere;
- i derivati e altri strumenti finanziari contrattati al di fuori dei confini nazionali;
- i metalli preziosi detenuti fuori dall’Italia;
- le attività finanziarie italiane comunque detenute fuori dal territorio italiano.
Tutte le voci riportate sin qui devono essere immesse nel quadro RW, indipendentemente dal fatto che vadano a produrre reddito nel nostro Paese. La domanda da porsi è però la seguente: in quale di queste categorie andrebbero a rientrare le criptovalute? La risposta al quesito è secca: alle attività estere di natura finanziaria. Da qui ne andrebbe a derivare lo stesso trattamento fiscale? Non proprio.
Le criptovalute infatti, diversamente da altre attività finanziarie, non sono soggette ad Ivafe (l’imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero). Il discorso relativo all’obbligo di segnalazione è limitato al monitoraggio fiscale, adempimento obbligatorio cui devono ottemperare tutti i contribuenti fiscalmente residenti in Italia. La legge in questione è stata introdotta nel 1990 al fine di consentire all’Agenzia di sorvegliare le attività estera di natura finanziaria detenute dai residenti del nostro Paese.
Perché si tratta di attività estere di natura finanziaria
Il motivo che spinge a iscrivere gli asset digitali nella categoria delle attività estere di natura finanziaria, nonostante corrano su una blockchain, ovvero su una rete digitale, è da ricercare in una pronuncia risalente al 2018 della stessa Agenzia delle Entrate.
Nella stessa venivano in pratica a configurarsi due ipotesi contrastanti:
- il caso in cui il contribuente fosse in possesso della chiave privata;
- quello in cui lo stesso non ne fosse in possesso ma si avvalesse dei cosiddetti custodial wallet, ovvero i portafogli elettronici offerti dagli exchange di criptovalute dietro pagamento di un compenso.
Se l’interessato fosse in possesso delle chiavi private, detenendo il wallet, oppure si avvalesse di custodial wallet di soggetti residenti in Italia, sarebbe rispettato il principio di territorialità e non ci sarebbe alcun obbligo di indicazione all’autorità fiscale.
Nel caso in cui scatti l’obbligo di dichiarazione, il riferimento è comunque l’articolo 4 del Dl 167/1990, il quale stabilisce che le persone fisiche (oltre agli enti non commerciali e alle società semplici) devono compilare il quadro RW del modello UNICO, quello appunto relativo al monitoraggio fiscale, ove detengano “investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia”.
Come quantificare le criptovalute nella dichiarazione dei redditi
Una volta che sia stato accertato l’obbligo di indicare le criptovalute nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, è però arrivato il momento di andarne a quantificare il valore. Si tratta in effetti di un passaggio non semplice, alla luce dell’ormai assodata volatilità di Bitcoin e Altcoin.
Anche in questo caso occorre fare riferimento ad un precedente parere dell’Agenzia delle Entrate risalente al 2018, nella quale si affermava che “il controvalore in euro della valuta virtuale detenuta al 31 dicembre del periodo di riferimento deve essere determinato al cambio indicato a tale data sul sito dove il contribuente ha acquistato la valuta virtuale”.
Ne discenderebbe che non conta il prezzo che è stato versato per avere un determinato asset, bensì quello che risulta l’ultimo giorno dell’anno fiscale, ovvero il 31 dicembre, proprio sull’exchange utilizzato per la transazione. Poniamo il caso che in un qualsiasi giorno dell’anno abbiamo acquistato un Bitcoin, versando 37mila euro su Binance, ma l’ultimo giorno dell’anno esso sia quotato a 38.200 sulla stessa piattaforma, nel riquadro RW del modello UNICO dovrà essere inserito questo secondo valore.
Procedendo in questo modo, però, viene a verificarsi un problema: le attività finanziarie tradizionali dovrebbero essere inserite nel quadro RW in base al proprio valore indicato sui mercati regolamentati. Nel caso degli asset virtuali, però, non esistono mercati regolamentati, in quanto gli exchange non sono riconosciuti e non prevedono alcun tipo di sorveglianza da parte di autorità di controllo.
Proprio la pratica assenza di mercati regolamentati di criptovalute, spinge a far riconsiderare il criterio da seguire per la loro immissione nel quadro RW il prezzo di acquisto. Non esistendo un valore di mercato ufficiale il riferimento deve essere quello relativo al prezzo d’acquisto, senza alcun legame con il modo in cui sono detenute. Sempre in riferimento all’esempio fatto, ne consegue che se l’interessato ha acquistato un BTC a 37mila euro, quello sarà il dato da inserire nella dichiarazione dei redditi, all’interno del quadro RW.
Le sanzioni per la mancata indicazione degli asset digitali
L’ultimo aspetto da esaminare è quello relativo alla mancata indicazione delle criptovalute detenute all’interno della dichiarazione dei redditi. Cosa accadrebbe, in questo caso? Molto semplicemente un comportamento omissivo del contribuente farebbe scattare sanzioni, proprio perché le stesse devono essere dichiarate, indipendentemente dal loro ammontare.
L’esenzione prevista nel caso dei depositi e conti correnti bancari, la quale ne prevede la segnalazione solo nel caso in cui sia varcata la soglia dei 15mila euro, non viene applicata per le criptovalute. Di conseguenza, omettere la segnalazione o compilare erroneamente il quadro RW comporta l’elevazione di una sanzione variabile dal 3 al 15% degli importi non indicati.
Al tempo stesso occorre segnalare come non possano essere comminate sanzioni per gli eventuali errori commessi sino al 2017, proprio in considerazione del fatto che l’obbligo di segnalazione è stato affermato dall’Agenzia delle Entrate solo nel 2018.
Il trattamento fiscale
Sinora abbiamo visto come le crypto siano da ascrivere alla categoria delle attività estere di carattere finanziario. Se però andiamo ad affrontare il lato fiscale da un punto di vista prettamente nazionale, possiamo affermare che almeno per quanto concerne il loro trattamento tributario in Italia a legislazione vigente, è già possibile trarre vere e proprie conclusioni in termini di interpretazione.
In particolare:
- per quanto riguarda gli exchange, ai fini delle imposte dirette, la commissione di cambio dovrebbe essere senz’altro soggetta a tassazione, in base alle norme che regolano il reddito di impresa;
- nel caso dei miner, ove ne esistano lungo i confini nazionali, trattandosi in buona sostanza di creazione di moneta virtuale tramite estrazione dalla blockchain, l’attività dovrebbe essere senz’altro assimilabile ad attività di produzione di beni (immateriali).
- ove tali operazioni siano condotte con i requisiti dell’abitualità e della professionalità, ne verrebbe poi a discendere l’applicazione delle regole fiscali proprie del reddito d’impresa;
- nel caso degli utilizzatori finali, i guadagni di tipo finanziario dovrebbero essere dichiarati alla stregua di redditi diversi.
Proprio quest’ultimo caso è il più rilevante, in quanto i redditi che ne derivassero dovrebbero essere considerati derivanti dall’impiego di capitale e, provenendo da un evento incerto (in ragione delle oscillazioni cui sono assoggettate le quotazioni), la disciplina applicabile dovrebbe essere quella di cui all’art. 67 del Tuir, comma 1, lettera c-ter).
In questo caso dovrebbe essere applicato l’art. 68, commi 5 e 6 del Tuir, con il reddito imponibile stabilito dalla differenza tra il costo di acquisto e il valore o corrispettivo di vendita. In caso di plusvalenza si applicherebbe quindi la ritenuta del 26%, mentre le eventuali minusvalenze sarebbero deducibili dai redditi di simile natura.
Leggi anche: Il Parlamento Europeo sulle criptovalute salva per ora il mining
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