Perché si parla tanto dell’algoritmo di consenso Proof-of-Stake? Il motivo è da ricercare soprattutto nel problema rappresentato da Bitcoin, da un punto di vista ambientale. La regina delle criptovalute, infatti, è ormai da tempo apertamente sotto accusa da parte di politici e associazioni ecologiste. Accuse che hanno preso il posto di quelle un tempo rappresentate da chi vedeva in BTC uno strumento per l’economia criminale. Tali però da comportare notevoli problemi alla reputazione della creazione attribuita a Satoshi Nakamoto, soprattutto alla luce della crescente importanza del movimento Fridays For Future, ispirato alle idee di Greta Thunberg. Creando le basi per un calo anche della posizione dominante del Bitcoin all’interno del mercato crittografico.
Indice:
Il problema ambientale rappresentato da Bitcoin
Tra le tante accuse al Bitcoin ce n’è anche una di carattere ecologico. All’icona crittografica, infatti, è imputato un consumo energetico eccessivo, tale da avere conseguenze nefande per l’ambiente. Ovvero quello derivante dalle operazioni che avvengono sulla sua blockchain, per la quale occorre una quantità straordinaria di energia elettrica.
Le accuse in questione sono ormai una consuetudine, cui contribuiscono anche gli studi condotti da ricercatori di ogni parte del globo. Studi che sembrano confermare la tesi di chi vede nel token un meccanismo eccessivamente energivoro. Se i cosiddetti evangelisti del Bitcoin si affannano a contrastare queste tesi, l’opinione pubblica sembra però ormai avere sposato le preoccupazioni degli ambientalisti.
Proprio per questo motivo nel corso degli ultimi mesi si parla sempre più di una alternativa all’algoritmo di consenso su cui si basa BTC, l’ormai celeberrimo Proof-of-Work (PoW). Stiamo parlando del Proof-of-Stake (PoS) un nuovo meccanismo che prevede un funzionamento non solo diverso nei vari processi decisionali, ma anche un consumo energetico molto limitato.
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Cos’è un algoritmo di consenso
Come dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro, una delle più importanti caratteristiche della blockchain è la decentralizzazione. Ovvero la mancanza di un organismo centrale cui è affidato il compito di certificare il rispetto delle norme che regolano ogni transazione. Decentralizzazione, però, non equivale ad anarchia. I processi in questione sono infatti sottoposti al vaglio di un meccanismo certificatore. Tale meccanismo è l’algoritmo di consenso.
La tecnologia su cui si basa la blockchain, la DLT (acronimo di Distributed Ledgers Technology) è ad esempio in grado di certificare in maniera assolutamente incontrovertibile che i dati contenuti nel suo registro sono non solo corretti, ma anche immutabili. Proprio tale immutabilità permette in pratica di rendere impossibili frodi che, al contrario, sono purtroppo frequenti nella vita di tutti i giorni. Per dare vita a questo processo, si può scegliere l’algoritmo di consenso da utilizzare. Satoshi Nakamoto per il suo Bitcoin ha optato per il Proof-of-Work (PoW). Una decisione la quale, però, sta comportando non pochi problemi.
Proof-of-Work: perché se ne parla tanto (e male)?
Soprattutto nel corso degli ultimi anni, il meccanismo di consenso su cui si basa il Bitcoin, è stato sottoposto ad un vero e proprio fuoco di sbarramento. Le critiche nei suoi riguardi sono dovute all’eccessivo consumo di energia che la sua adozione comporta, all’interno di una blockchain. Consumo talmente eccessivo da equivalere, al momento, a quello che caratterizza ad esempio la Svezia. Ad affermarlo è il Bitcoin electricity consumption index dell’Università di Cambridge secondo il quale BTC necessiterebbe di oltre 133 terawattora di elettricità l’anno, contro i 132 dell’intero Paese nordico.
Non meno preoccupante il dato rivelato dal Bitcoin Energy Consumption Index di Digiconomist, che a sua volta stima in 1.544 i kWh necessari per completare una transazione in BTC. Per comprendere meglio questo dato, occorre a questo punto sottolineare che corrisponderebbe a circa 53 giorni di fabbisogno energetico per una famiglia media statunitense. In pratica, adattando al dato in questione il costo medio per un kWh negli Stati Uniti, ove si aggira intorno ai 13 centesimi, una transazione Bitcoin costerebbe oltre 200 dollari.
Si tratta in effetti di dati estremamente significativi. Tanto da aver spinto la Cina ad espellere le mining farm, ovvero le aziende che estraggono i blocchi da aggiungere alla rete di Bitcoin. Il loro eccessivo consumo infatti, secondo il governo di Pechino andava a compromettere gli obiettivi di risanamento ambientale del gigante orientale.
Anche in Occidente, però, l’ostracismo nei confronti dell’icona delle criptovalute e del suo Proof-of-Work sta crescendo sempre di più. Tanto da aver spinto Elon Musk a depennare BTC dai mezzi di pagamento per le auto di Tesla, oltre che a farsi promotore del Bitcoin Mining Council. Ovvero l’ente che raggruppa le aziende e le personalità che puntano ad un mining meno energivoro.
L’alternativa è il Proof-of-Stake
In questo quadro sempre più complicato, ha avuto buon gioco ad affermarsi sempre di più il meccanismo di consenso che è considerato al momento la reale alternativa a PoW. Stiamo parlando dell’algoritmo Proof-of-Stake (PoS), il quale prevede un funzionamento completamente diverso. Andiamo quindi a vedere le differenze tra i due procedimenti:
- per quanto riguarda il Proof-of-Stake, il sistema prevede la risoluzione di quesiti matematici la cui difficoltà è variabile. A cercare di risolverli sono i miner (minatori), ovvero coloro che partecipano alla creazione dei blocchi della catena. Quello che riesce per primo a individuare la soluzione al quesito (detto Hash) sottopone la soluzione alla rete, al fine di ottenere il consenso del 50%+1 dei nodi. Se la verifica va a buon fine si crea un blocco ed il minatore viene ricompensato. Dopo l’ultimo dimezzamento delle ricompense, detto halving, avvenuto nel maggio del 2020, i miner ottengono 6,25 BTC per la risoluzione di ogni problema;
- nel caso del Proof-of-Stake, non c’è nessun problema matematico da affrontare. L’algoritmo in questione rende la probabilità di creare un blocco direttamente proporzionale alla quantità di valuta depositato nella blockchain dal nodo (tecnicamente staking). In questo meccanismo i nodi non sono chiamati miner, bensì validator. La scelta del nodo avviene in maniera puramente casuale, ma sono naturalmente coloro che hanno bloccato il maggior quantitativo di valuta virtuale ad avere maggiori probabilità di aggiungere il blocco alla catena e ottenere la relativa ricompensa.
Perché Proof-of-Stake è sempre più popolare?
Come abbiamo visto, quindi, il funzionamento dei due algoritmi di consenso è molto diverso. Al di là del funzionamento, però, ciò che potrebbe realmente premiare lo Staking è proprio la sempre crescente attenzione nei confronti delle questioni ambientali. Le blockchain che utilizzano l’algoritmo di consenso Proof-of-Stake, infatti, consumano quantità di energia molto minori rispetto a Bitcoin e agli altri token incentrati su Proof-of-Work.
La questione dei consumi energetici non rappresenta una questione di lana caprina, ma ha ricadute di non poco conto. Abbiamo già ricordato come la Cina abbia provveduto a emettere un bando nei confronti del mining di criptovaluta all’interno del suo territorio. Al gigante orientale, però, si potrebbero presto aggiungere altri Paesi, ovvero quelli che sono stati scelti dalle mining farm espulse dalla Cina come nuova destinazione. Decisione motivata proprio dal minir costo dell’energia elettrica, che consente di rendere più proficua l’attività. Ad esempio Islanda, Svezia e Norvegia, ovvero il blocco dei Paesi nordici, che nelle ultime settimane si è dimostrato particolarmente attivo in tal senso.
L’Islanda ha infatti deciso di tagliare il quantitativo di energia destinato al mining, mentre Svezia e Norvegia hanno addirittura chiesto un bando a livello UE nei confronti dell’attività di estrazione dei blocchi. Non si tratta peraltro di iniziative estemporanee, come del resto dimostra l’attenzione crescente dei settori crypto più avvertiti verso questo genere di istanze. Dimostrata proprio dal varo del Bitcoin Mining Council su impulso di Elon Musk.
Ethereum si avvia verso lo staking
A ulteriore dimostrazione della preoccupazione che serpeggia negli ambienti crittografici, va rilevato che il grande rivale di Bitcoin, Ethereum, ha deciso a sua volta di avviarsi verso una nuova fase di vita. Nella quale lo Staking andrà a prendere il posto dei calcoli matematici del Proof-of-Work. Il processo di revisione è già stato avviato da tempo e va avanti, anche se con alcuni ritardi di non poco conto.
In base alle previsioni, comunque, il Proof-of-Stake dovrebbe entrare a regime sulla blockchain di ETH entro la fine dell’anno. Secondo alcuni analisti questo evento potrebbe comportare una vera e propria esplosione del prezzo di Ethereum, mettendo addirittura in pericolo la leadership di BTC. Non resta quindi che attendere l’evento, per capirne meglio le implicazioni.
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