Com’è ormai noto, l’Italia ha un regime fiscale estremamente elevato, considerato da molti cittadini del Belpaese alla stregua di una vera e propria vessazione, anche in considerazione del fatto che troppo spesso a tasse troppo alte corrispondono servizi non proprio all’altezza.
Ad un andazzo ormai consolidato, ad onta delle terne promesse da marinaio della politica, ora sembra non sfuggano neanche le criptovalute. Anche per gli asset virtuali il regime fiscale tricolore si conferma tra quelli più rigidi in assoluto.
Ad affermarlo sull’onda dei dati ufficiali è un rapporto redatto da Sape Cons Ltd, uno studio legale il quale si occupa proprio di tematiche normative e fiscali riferite alle valute virtuali. Andiamo quindi a vedere nel dettaglio cosa emerge dal report appena pubblicato.
Regimi fiscali sulle criptovalute: lo studio di Sape Cons Ltd
Nel corso degli ultimi anni sono cresciuti in maniera esponenziale gli investimenti in asset digitali e criptovalute. Un trend favorito naturalmente dalla prospettiva di clamorosi guadagni che per lungo tempo ha caratterizzato soprattutto il Bitcoin, la cui crescita ha reso ricche non poche persone, in particolare quelle che ne avevano intuito il potenziale alcuni anni fa, soprattutto prima dell’ultimo halving, a seguito del quale il suo prezzo ha iniziato a correre a ritmi folli.
Chi è stato in grado di approfittare del trend in crescita di BTC, ha naturalmente dovuto versare una parte del proprio guadagno al proprio Paese sotto forma di tasse. Chi risiede in un Paese ove il livello delle tasse è più contenuto ha però potuto godere ancora di più dei guadagni fatti. Anche perché i ricavi derivanti dagli asset virtuali sono soggetti a normative che mutano da Stato a Stato.
Se quelle di El Salvador e Bielorussia sono le più permissive, sull’altro lato della scala si vanno a posizionare Italia, Francia e Finlandia. In particolare, nel nostro Paese le plusvalenze vengono tassate separatamente, a differenza di IRES, IRAP e IRPEF, su cui sono applicati gli scaglioni previsti dalla normativa vigente.
A spiegarlo è l’avvocato Oreste Maria Petrillo, il quale riconduce il tutto alle diverse pronunce dell’Agenzia delle Entrate e ad una serie di sentenze di giurisdizionali le quali hanno sottoposto i ricavi da moneta virtuale alle regole fiscali contenute nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) e all’interno del Decreto sull’istituzione e disciplina dell’Iva.
Inoltre, come ricordato dall’avvocato Fabio Santoro, “sono assoggettate all’Imposta sul reddito delle persone fisiche i ricavi realizzati sulla vendita di valuta estera rivenienti da depositi e conti correnti a condizione che, nel periodo d’imposta in cui la vendita avviene, il saldo di tali conti ecceda di 51.645,69 Euro per sette giorni lavorativi consecutivi”.
Proprio da qui Sape Cons LTD ha tratto l’idea di andare a studiare nel dettaglio la normativa di quasi 50 Paesi dislocati in ogni angolo del globo, con il preciso intento di stilare una classifica in base alla severità delle legislazioni esaminate. Con risultati i quali, probabilmente, per gli esperti di criptovaluta non rappresentano una eccessiva sorpresa.
La classifica di Sape Cons Ltd
Il Paese con la legislazione più permissiva in assoluto, tra quelli studiati, è El Salvador. Un primato che non dovrebbe stupire eccessivamente, considerato come il piccolo Stato latinoamericano abbia puntato con grande vigore sugli asset virtuali. Proprio nell’ultimo settembre, infatti, il presidente Nayib Bukele ha imposto tra le polemiche una Bitcoin Law che ha sancito il corso legale dell’icona crypto lungo il territorio nazionale.
In questo caso la Capital gain tax è al 10% e la ratio sembra abbastanza logica: spingere i cittadini ad utilizzare, per quanto possibile, il Bitcoin nella vita di tutti i giorni, in modo da instradare il Paese verso quell’innovazione finanziaria vista come un’opportunità di provocarne una crescita in termini economici, al momento impedita dalla debolezza della valuta fiat.
Il secondo posto è invece stato assegnato alla Bielorussia, il Paese dell’Europa Orientale il quale ha sancito la creazione di un vero e proprio perimetro territoriale all’interno dello Stato con lo scopo di incentivare la tecnologia digitale. Le compagnie che decidono di impiantarvi la propria attività sono gratificate di un trattamento fiscale privilegiato, sotto forma di un misero 1% del reddito come tassa di residenza. In pratica, in tal modo si cerca di favorire la creazione di una Silicon Valley bielorussa, un vero e proprio hub crypto.
Tra i Paesi i quali hanno optato per la strada esattamente inversa c’è invece una prima sorpresa, ovvero la Finlandia, che pure si è caratterizzata nei primi anni per l’apertura mostrata verso il mondo delle criptovalute. Al suo interno gli asset virtuali sono considerati alla stregua di proprietà e soggetti di conseguenza alle regole fiscali relative alla Capital gain in occasione della loro vendita. L’aliquota che viene applicata è quella del 30% sino a quota 30mila euro, che sale di quattro punti percentuali ove tale quota sia varcata.
Meno sorprendenti i casi di Francia e Italia, ove notoriamente i livelli fiscali sono abbastanza severi. Se per l’Italia abbiamo visto come le plusvalenze derivanti dalla compravendita di asset virtuali siano tassate separatamente, Parigi ha dal canto suo additato le criptovalute come una rappresentazione digitale di valore, la cui tassazione si basa differentemente sulla distinzione tra business e non business. Se la Income tax, l’imposta sul reddito, è a scaglioni, con quello più elevato al 45%, la Capital gain tax è secca, al 30%. Inoltre, dal primo giorno dell’anno la Corporation tax, che riguarda le società, è fissata al 25%.
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