Il Department of Justice (DoJ) degli Stati Uniti sta di nuovo indagando su Google. Stavolta Big G sarebbe sotto sotto accusa per la sua posizione di dominio nel settore della cartografia. In pratica, i funzionari devono accertare se l’azienda di Mountain Views stia approfittando della sua posizione tramite Google Maps, violando di fatto le leggi antitrust vigenti negli Stati Uniti che, come noto, non sono prese alla leggera dal potere politico. Basti pensare che solo per quanto concerne Alphabet si tratta della terza indagine nei suoi confronti dal 2019. Le altre due sono ancor pendenti, in attesa che lo stesso DoJ decida cosa fare in questo caso, in quanto i funzionari dell’ente non si sarebbero ancora formati una chiara idea sulla questione relativa a Google Maps.
Google Maps: cosa sta accadendo
Il Department of Justice degli Stati Uniti ha deciso di aprire un fascicolo d’inchiesta teso a verificare se Google Maps costituisca o meno una flagrante violazione delle normative antitrust vigenti nel Paese. In particolare, il DoJ avrebbe concentrato il suo esame sulle modalità con cui Alphabet Inc., la società madre di Google, organizza i servizi che sono proposti ai consumatori.
Secondo Bloomberg e Politico, che stanno seguendo la vicenda, tre persone avrebbero affermato che la causa in questione potrebbe arrivare entro la fine dell’anno in corso. Inoltre, hanno specificato che i funzionari governativi avrebbero avuto una presa di contatto, di recente, con i clienti e i concorrenti di Google (tra cui spiccano Garmin Ltd. e Mapbox Inc.). L’intento è di reperire testimoni in grado di dare informazioni utili sull’abuso di posizione dominante da parte di Big G per quanto concerne le informazioni necessarie alla localizzazione sulle mappe digitali.
Per farlo, l’azienda farebbe leva sui termini di servizio di Google Maps, i quali vanno a stabilire che gli sviluppatori sono obbligati a utilizzare i suoi servizi in bundle, compresi i prodotti di ricerca, durante l’utilizzazione delle mappe. In altre parole, si stabilisce tra le parti interessate un accordo cui gli stessi sviluppatori sono vincolati, vietando loro di utilizzare le proprie informazioni, valutazioni e foto in altre opzioni di mappatura.
A rilevare questo comportamento non proprio trasparente è stato un rapporto risalente al 2020 della Commissione Giudiziaria della Camera dei Rappresentanti, la quale ha messo nero su bianco quanto segue: “Google traccia e fa pressione sugli sviluppatori che utilizzano i dati di localizzazione di Google insieme ai dati di mappatura di un’azienda non Google, costringendoli di fatto a scegliere se utilizzare tutti i servizi di mappatura di Google o nessuno”.
La difesa di Google
Dal canto suo, Google avrebbe impostato la sua linea di difesa sul fatto che la connessione ai dati sarebbe assolutamente indispensabile al fine di garantire risultati di rilievo agli utenti. Ove gli stessi fossero condivisi con altre società operanti nello stesso ambito oltre alla qualità del servizio potrebbe risultarne compromessa anche la sua sicurezza.
Inoltre, un portavoce di Google, intervistato al proposito da Gizmodo, avrebbe affermato che gli sviluppatori sceglierebbero il suo servizio di mappatura in quanto ne riconoscerebbero l’alta qualità e l’utilità delle informazioni incluse al suo interno.
Inoltre, sempre secondo il portavoce dell’azienda, sarebbero liberi di utilizzarne altri, come fanno in molti. Una tesi che, naturalmente, non è condivisa dalle aziende concorrenti, le quali si erano lamentate del comportamento dell’azienda nel corso di un’audizione sulla questione tenuta presso la Camera dei Rappresentanti.
Gli stessi commissari hanno dal canto loro affermato che Google opera pressioni indebite sugli sviluppatori che provano ad usare i suoi dati mixandoli con quelli provenienti da altre fonti, costringendoli in tal modo a dover scegliere tra un utilizzo integrale del servizio di mappatura in questione, oppure la pratica esclusione dallo stesso. Aggiungendo un giudizio che suona lapidario: le pratiche di Google equivarrebbero ad una vera e propria pistola puntata alla tempia. Proprio questa è la sostanza della questione, da cui Google cerca di spostare l’obiettivo.
I precedenti dell’epoca Trump
Le prime avvisaglie dell’ostilità della politica nei confronti dell’azienda di Mountain Views risalgono all’epoca Trump. In particolare, nel 2019 sono stati aperti procedimenti tesi a capire se le pratiche commerciali del gruppo rispondessero a quanto imposto sul territorio statunitense dallo Sherman Act, il provvedimento risalente al 1890, e dalle successive leggi con le quali lo Stato cerca di impedire posizioni di monopolio dannose per cittadini e consumatori.
Nel 2020 un gruppo di procuratori generali dello Stato hanno deciso quindi di fare causa a Google, accusandola di monopolizzare indebitamente il settore delle ricerche online. A questa causa, la quale dovrebbe approdare nelle aule di tribunale nel prossimo settembre, si è poi aggiunto un secondo fronte, quello rappresentato dall’abuso di posizione dominante nell’altrettanto importante settore della pubblicità digitale.
Anche alcuni Stati, a partire dal Texas, però, si sono aggiunti alla muta di mastini che stanno braccando Google, sempre per quanto riguarda la questione dell’advertising online. Mentre un altro gruppo, capeggiato dallo Utah, ha deciso invece di concentrarsi su un contenzioso relativo alla condotta seguita dall’azienda all’interno del suo app store in relazione ai dispositivi mobili Google Play. Il fronte di battaglia si fa sempre più largo, quindi, aumentando le probabilità che alla fine la società guidata da Sundar Pichai sia costretta a pagare dazio, dal punto di vista legale.
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